“Diceva che lo faceva per il mio bene”.

Questo racconto nasce per la giornata mondiale contro la violenza sulle donne.

È il contributo di una lettrice, nonché amica, Alessandra D., che ringrazio commossa, pubblicando la sua testimonianza nella speranza di dare forza a tutte quelle donne che ancora non sono riuscite a scappare dai loro aguzzini, di riprendersi ciò che appartiene loro di diritto: la propria dignità e libertà.

Perché la violenza sulle donne non è sempre qualcosa di assolutamente certo, visibile e provabile.

È qualcosa di subdolo, strisciante, nascosto, soffocato dalle convinzioni popolari, giustificato dalle stesse persone che dovrebbero difendervi, anche da donne come voi che scelgono che esser “vittima” sia più dignitoso che ribellarsi.

Ma dentro di sé, ogni donna, sa la verità ed è quella che dovrebbe seguire fino allo stremo delle proprie forze.

Le urla sono urla.

Le minacce sono minacce.

Gli schiaffi sono schiaffi.

Le botte sono botte.

Non c’è nulla e nessuno che possa giustificare una seppur minima castrazione della vostra volontà fisica, psicologica o morale. Nulla e nessuno. E soprattutto non può essere l’amore a farlo.


Diceva che lo faceva per il mio bene.

di Alessandra D.

<<Diceva che lo faceva per il mio bene. Che io ero un’idiota e che dovevo esser “raddrizzata” di tanto in tanto, altrimenti avrei perso la mia strada. Altrimenti non avrei combinato nulla nella vita. Perché ero una “trallallero” che amava solo cose superficiali e stupide, tutte le cose che lui non aveva mai capito.

Diceva che un giorno l’avrei ringraziato.

Diceva che faceva male anche a lui, anzi a lui di più.

Ma era necessario.

Quando ottenevo i risultati che lui voleva diceva che lo sapeva che ero in gamba.

Ero orgoglioso e fiero.

E io mi sentivo bene. Mi sentivo felice. Mi sentivo amata davvero.

E tutto sembrava esser tornato al suo posto.

Ma durava poco.

Bastava parlare di qualcosa che non gli piaceva per rimangiarsi tutto e urlarmi contro che ero una stupida. Una poveraccia. Una che dalla vita non aveva capito nulla.

Non come lui, che alla fine sapeva tutto. Che era affermato. Che eccelleva in ogni cosa che faceva. Che faceva diventare oro ogni cosa che toccava.

Che alla fine mi manteneva pure. Era il minimo doversi dimostrare riconoscente, almeno, quando si parlava a cena di argomenti a lui cari. O quando si guardavano i reality show che a lui piacevano tanto. Diceva che era un modo per informarsi ma mentiva. A lui piacevano e basta.

E io l’amavo sopra ogni altra cosa al mondo.

Credevo fosse una divinità, una di quelle persone speciali che nascono una volta ogni mille anni.

E se mi obbligava a non uscire, a volte, era per il mio bene. Altrimenti là “fuori” le persone mi avrebbero fatto sicuramente del male, prima o poi. Prima o poi, andare in giro con le mie amiche, mi avrebbe fatto notare da qualcuno. E allora lui non avrebbe voluto saperne niente, perché mi aveva avvertito che fuori il mondo è cattivo. Ma se tornavo tardi e non mi era successo nulla, allora era lui a ricordarmi che il mondo è cattivo.

E se mi svegliava a suon di urla, obbligandomi a non dormire quando ero stanca, perché avevo studiato tutta la notte, lo faceva sempre per il mio bene: perché voleva per me una vita salutare, una di quelle vite che le “brave ragazze” fanno, che dormono 9 ore a notte e si svegliano fresche, pimpanti, alle 7.00 del mattino. E che l’abitudine di studiare di notte non ce l’hanno. Come quelle ragazze della palestra che frequentava, con dei fisici mozzafiato, che avevano anche iniziato a eliminare i carboidrati per quanto erano brave. Non come me che mi ingozzavo di schifezze.

E se mi diceva che facevo schifo perché ero ingrassata era sempre per il mio bene: perché potevo essere molto più bella più magra. Che alla fine questo problema del cibo era un demone da combattere, come la mia indolenza e pigrizia che non mi davano modo di dimagrire.

Lui non ci dormiva. Perché non riusciva a volermi bene grassa, non ci riusciva proprio.

Perché ero una stupida, indolente, grassa ragazza senza alcuna qualità se non quella di costruirsi dei castelli di sabbia per mascherare al mondo la sua indiscutibile inadeguatezza.

Inadeguata e brutta.

Che alla fine dovevo pur fare qualcosa, io, oltre a essere venuta al mondo.

Che lui pensava a tutto, anche a ripararmi le lampadine in camera. E mi pagava la scuola. E mi comprava i libri. Non gli si poteva proprio recriminare nulla.

E se mi incuteva terrore sugli uomini lo faceva soltanto per proteggermi: perché se fossi stata presa in giro da uno dei tanti, non sarebbe stata colpa di quello stronzo ma soltanto colpa mia. Perché sarei finita a fare la troia, quella che gli altri usano e poi non vogliono più. E che nessuno si sarebbe preso una così. Perché il valore di una donna è solo nella sua purezza. Se non sei pura sei una da buttare.

Lui pensava tanto a me. Pensava a come rendermi perfetta. E io non dovevo temere, perché c’era lui.

E tutte le mie perplessità e paure sulla vita, i dubbi sulla strada scelta, sul percorso da fare, i periodi di tristezza e quelli duri, fatti di lacrime, eran cose da poco, proprie di una stupida che non deve pensare a niente.

E allora era necessario urlarmi a pochi centimetri dalla faccia con gli occhi rossi, minacciarmi, stritolarmi i polsi, strattonarmi, tirarmi gli schiaffi, farmi cadere per terra. Lo faceva per il mio bene, anche questo, era l’unico modo per “raddrizzarmi”. All’ospedale, del resto, lui non mi ci ha mai mandato.

Le manate in faccia, per quanto forti, scomparivano nel giro di qualche secondo.

Per terra, inoltre, non ero mai rimasta.

Ma non era il mio corpo che continuava a massacrare: era la mia dignità.

E l’impotenza contro la sua forza e il suo potere generavano in me solo rabbia e sdegno.

No, non verso di lui, ma verso me stessa: la grassa ragazza stupida senza dignità, senza un soldo e senza un futuro.

E allora pensavo che aveva ragione lui. Che lui alla fine sapeva qual era il mio bene.

E che dopo le botte, in fin dei conti, mi sentivo quasi purificata, come dopo una confessione in chiesa. Che forse tutte quelle stupidaggini che mi piacevano tanto erano solo capricci.

Nessuno, del resto, in famiglia, si azzardava a contraddirlo. Era normale in una famiglia dabbene. Era la tipica educazione di “una volta”, che faceva venir su ragazzi puliti e onesti. E rispettosi.

E, allora, fuori di casa era inutile parlarne, perché le altre ragazze come me forse non avevano genitori così premurosi da “raddrizzarle” di tanto in tanto. Perché gli altri genitori non ci tenevano ai figli se non li “raddrizzavano” ogni tanto.

Mentre lui mi voleva bene, un bene immenso, un bene che solo un padre può volere per la figlia. 

A scappare da quella vita in una notte, dopo l’ennesima litigata senza senso che presagiva di trasformarsi in tragedia, mi ha aiutata un altro uomo.

Un angelo. L’uomo che ho scelto al mio fianco. Che prima di pensare a tirarmi una manata in faccia preferirebbe farsi tagliare una mano. Che l’unico modo che ha di dimostrarmi affetto è quello di riempirmi di baci.

Lui mi ha accudita. Mi ha nutrita. Mi ha curata.

Lui che non è un “uomo di una volta”, è un “uomo nuovo”.

Quello che auguro a tutte le donne di incontrare e di scegliere.

Ma c’è anche chi non mi ha aiutata.

Donne come me che mi hanno rimproverato tanta impudenza e irriconoscenza nei confronti di chi mi ha cresciuta. Che quello che mi ha dato non è assolutamente dovuto. Che ci sono famiglie che muoiono di fame mentre io ho avuto la possibilità addirittura di studiare.

Che loro non ricordano tutta quella violenza; che sono esagerata; che è questione di punti di vista. E che lui, del resto si sa, ha un carattere forte.

E donne come me, le c.d. “amiche”, (non tutte per fortuna), che hanno tanto sminuito la mia situazione da regalarmi solo una nuova sensazioni di impotenza. Che mi hanno screditato, non creduto o deriso.

Ma io so qual è la verità.

Non ero io a menarlo.

Non ero io a umiliarlo.

E adesso che vivo la bellezza di una vita libera, senza paure, senza terrore, nella quale mi alzo la mattina senza dover sperare di non aver fatto qualcosa di male per la quale esser punita, mi sembra un abominio non averlo fatto prima.>>


Nel ringraziare Alessandra D. per la sua testimonianza vorrei sottolineare un’importante riflessione su questa triste e desolante realtà.

La convinzione che per far capire un concetto a una donna o per “educarla” o per ottenere dalla stessa l’adeguato rispetto sia necessario schiaffeggiarla/umiliarla o picchiarla, è roba da Medioevo.

Non cedete alle convinzioni popolari di persone che appaiono colte ma svelano, al contrario, una ingiustificabile ignoranza: sono solo pratiche barbariche.

Sulla base di tali convinzioni si portano le stesse vittime a credere che per amor di educazione o per amor di coppia si debba tollerare il carattere più aggressivo del proprio uomo rispetto a quello di altri.

Oppure, cosa molto frequente, si portano a credere le stesse vittime che la violenza sulle donne sia un qualcosa di molto più grave ed evidente di un semplice schiaffo.

E, solitamente, cosa ancor più grave, a convincervi di questo non sono i vostri diretti aguzzini ma gli altri familiari che restano a guardare e non fanno nulla per difendervi.

Aprite gli occhi.

Vorrei ribadire questo concetto: non c’è nulla e nessuno che possa giustificare una seppur minima castrazione della vostra volontà fisica, psicologica o morale. Nulla e nessuno. E soprattutto non può essere l’amore a farlo.

A tal fine vorrei riportare soltanto una delle migliaia di fonti normative (tra tutte basterebbe considerare anche soltanto la Dichiarazione universale dei diritti umani o la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché la Convenzione europea per i diritti dell’uomo) che difendono la dignità degli esseri umani indistintamente:

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”.

Questo è l’art. 3, comma primo, della nostra Costituzione. Anche soltanto questo singolo articolo dovrebbe bastare a farvi capire quanto siano fuori da qualsiasi giustificazione le persone che tentano di convincervi che, a fin di bene, possono arrogarsi il diritto di degradare la vostra dignità in qualsiasi modo possibile.

Mi trovo a dover richiamare anche queste fonti normative in quanto, lì dove la propria coscienza non arriva almeno abbiamo qualcosa di oggettivo e immutabile (e per i diritti umani è proprio così) che può proteggerci. Non fatevi convincere del contrario.


<<La differenza non la fanno gli altri. La fai tu.>>

Aurora G.

Una risposta a “Diceva che lo faceva per il mio bene”.

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