Il grande leone dorato e il piccolo pesce volante

C’era una volta, sulla cima della collina più alta, tra i grovigli di sterpi secchi e il giallo dell’erba succhiata dal sole, un mastodontico Leone Dorato forte, coraggioso, determinato e dotato di molteplici virtù.


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La sua criniera splendeva al sole come le gocce di sangue, rubini a mezzogiorno, della carcassa degli animali che spolpava fino al midollo. La vita non poteva esser diversa da come sempre l’aveva conosciuta: un ciclo di grezza fattezza dove lui, il re assoluto di tutti i branchi della savana, era stato destinato a sancire la vita e la morte dei suoi sudditi. Contemplando la sua magnificenza decise un giorno che fosse giunto il tempo per tramandare la propria preziosa esperienza a una prole degna di lui, che avrebbe fatto riecheggiare il suo ruggito per l’eternità.


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Nacque così un figlio che il Leone Dorato chiamò Colossus.

Sarebbe stato massiccio e gigantesco, come lui, intelligente e giusto, come lui e la sua possanza avrebbe dominato su tutte le specie della savana. E quando avrebbe abbattuto la preda l’avrebbe fatto da cacciatore infallibile senza alcun margine di errore. Le stelle l’avrebbero ammirato dal confine ultimo del cielo e avrebbero accecato le notti africane di una luce mai contemplata, in segno di grande riverenza.


Nei primi anni di vita Colossus fu allevato con grandi sacrifici: il Leone Dorato gli insegnò tutto ciò che conosceva sul territorio, sulla caccia, sui pericoli, sulla vita, sulla morte, sulla giustizia e sull’ingiustizia.

<< È giusto >> così parlava il grande Leone Dorato, <<distinguere i sudditi tra sudditi di basso rango, di medio rango e di rango eccelso. È giusto che tu possa uccidere tutti i sudditi di basso rango necessari al tuo sostentamento. Sono nati per questo unico scopo.>>

E Colossus annuiva. L’affetto e l’ammirazione sconfinata verso il grande Leone Dorato non gli dette, all’inizio, alcun dubbio sulle lezioni che apprendeva. Era una spugna di conoscenza.

<< È giusto >> così parlava il grande Leone Dorato, <<che tu sia riconoscente a me e a tua madre. Noi ti abbiamo concesso la vita, noi ti concediamo di nutrirti, lavarti e crescere.>>

E Colossus annuiva.


E cresceva. Cresceva forte, massiccio, mastodontico così come il Leone Dorato aveva previsto. Ma ciò che non aveva previsto era quella profonda sensibilità nei confronti delle altre specie viventi che rendeva Colussus meno forte e determinato del padre.

leone cuccioloQuella tiepida sensazione di inadeguatezza dei primi anni di vita si trasformò presto, per Colussus, in un male ingestibile e incurabile che lo rese inerme, malato, sofferente e disperato.

Ma il Leone Dorato diceva:

<<Non è giusto che tu sia triste. Sei il figlio del sovrano della savana, non sei preda bensì cacciatore. Al posto tuo ogni singolo suddito sarebbe felice di poter vivere. >>

E Colossus annuiva ma meno convinto di un tempo.


Un giorno, in uno dei lunghi viaggi ai confini del territorio, Colossus scorse nella linea estrema dell’orizzonte, disciolta dal calore, un’immensa distesa di un colore sconosciuto: intenso come la nube più oscura dei temporali d’autunno ma leggiadro e inconsistente come il cielo d’estate. La distesa sconfinata si muoveva all’unisono e si accartocciava contro la sabbia rovente del deserto scomparendo in essa.

Colossus, allora, chiese al Leone Dorato cosa fosse tutta quella magnificenza.

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E il Leone Dorato rispose:

<<Lo chiamano mare ma è inutile alla nostra specie e al nostro rango. Produce acqua che non possiamo bere e dà riparo a esseri spregevoli, dalla pelle squamosa come i rettili ma più viscidi e inermi. A tali esseri non è destinato alcun rango. Sono senza artigli né fiato e procedono nel mare come fossero lombrichi.>>

In quel momento Colossus smise di ascoltare. Rapito dai diamanti sulla cresta delle onde rimase a lungo a contemplare la danza eterna dell’acqua del mare e si sentì, in un attimo, parte anch’egli di una vita che non sapeva poter esser così bella.


sterpaglliaDi ritorno al centro della savana le antiche sterpaglie e l’erba essiccata, l’odore di sangue rappreso, succhiato dalle zanzare e l’aria rovente furono, per Colossus, d’un tratto insopportabili.

Gli allenamenti continuarono a lungo e Colussus si rivelò più veloce, più intelligente e più strategico del grande Leone Dorato nel cogliere la preda d’assalto. Ma la sera, di ritorno dalla caccia e dalle cose della vita, Colussus si sentiva stanco, triste, disperato e profondamente solo.

Un giorno, mentre il sole picchiava sulla folta criniera che, ormai, ostentava orgoglioso di render orgogliosi altri, sentì dentro una scarica improvvisa che dette alla sua vita un senso di appartenenza: soffocava. Soffocava in quelle distese di arsura e morte, schiavi e padroni, giustizia e ingiustizia. Soffocava tra le realtà dei vincitori che sbeffeggiavano i vinti. Soffocava  tra gli insegnamenti del grande Leone Dorato e le scale gerarchiche dei sudditi. Soffocava nel deserto infinito, permanente e costante, senza slanci di diversità alcuna che non fosse determinata da un nuovo massacro di antilopi.

Sentì il suo corpo ribellarsi al sole, al calore, alla moltitudine di sudditi che passeggiavano instabili, inconsapevoli e in precario equilibrio su quel filo sottile manovrato dagli alti ranghi.

Una sola luce riusciva a scorgere da quel lungo tunnel di straziante sofferenza. Ed era intensa e dura come le nubi oscure dei temporali d’autunno e leggiadra e inconsistente come il cielo d’estate: il mare.


Così chiese udienza al grande Leone Dorato, ignaro di cosa stesse accadendo al proprio respiro.

<<Aiutami, padre, sto soffocando. Non riesco a respirare, qui. Portami al mare.>>

Ma il grande Leone Dorato rispose:

<<Tu sei il figlio del re della savana. La tua vita è qui e non tra gli esseri spregevoli.>>

Disperato e moribondo, Colossus insistette, chiedendo ancora il permesso di partire.

Ma il grande Leone Dorato rispose con un terrificante ruggito, sfoderando gli artigli.

<<Quando sarai re potrai decidere dove portare il tuo branco. Ma fino a quel giorno dovrai rispettare il mio volere.>>

E Colossus annuì. Sia per paura che per delusione.

Nella notte, tuttavia, peggiorò.

Dal costato lunghe fila di linee oblique gli scavarono la pelle e gli artigli, un tempo lame affilate, gradualmente si ritirarono nelle profondità della carne. Il respiro divenne sempre più affannoso e i peli del petto e della testa cominciarono a cadere.

La madre, allora, svegliata dai rantolii del figlio, chiamò il grande Leone Dorato per chiedergli aiuto.

<<Un ibrido!>> Esclamò il grande Leone Dorato appena vide suo figlio.

Disteso a terra, senza artigli né criniera, con la pelle violacea che si appiattiva in un tessuto sconosciuto, Colossus si mostrava al padre nella sua più cruenta verità.

<<Sto morendo.>> Disse Colussus. <<Portami al mare.>>

Ma il grande Leone Dorato, di fronte allo spettacolo raccapricciante, emise un ruggito di sdegno e si ritirò nella sua grotta deluso e disarmato.

La madre, allora, sussurrò a Colossus:

<<Non preoccuparti, figlio mio, domani starai meglio e ricomincerai le cose di tutti i giorni.>>

E Colossus annuì per l’ultima volta.


mare nottePoi, atteso che la madre uscisse dalla sua grotta, invocò le ultime gocce di vita che sentiva ribollirgli nel sangue e si alzò, malandato e moribondo, determinato a non lasciare la propria anima alle stelle se non dopo aver rivisto il mare.

Zoppicando e senza fiato, con il corpo che vomitava affanno, riuscì a giungere alla prima distesa marina, illuminata dalla liberatoria fluorescenza lunare.

Il vento, da leggera brezza pungente improvvisamente soffiò con violenza inaspettata, trascinando il corpo disossato dall’afa a contatto con la battigia bagnata.

Colossus, allora, si specchiò in quel cristallo argenteo e scoprì la sua vera natura. Non era nato per le cose della Terra. Era nato per l’acqua del mare.

Con l’ultimo sforzo che i suoi lombi gli concessero si lasciò cadere nelle profondità marine, finalmente consapevole e felice della sua diversità.

Fu allora che comprese il perché di quelle lunghe linee oblique sul costato, della perdita dei peli e della scomparsa degli artigli: erano branchie, erano squame, erano pinne quelle che si nascondevano al di sotto della sua superficie.

Non stava morendo, stava nascendo; non stava soffocando, stava finalmente respirando.

Dentro alla culla marina Colossus abbandonò la sua pelle e, per la prima volta nella sua vita, sentì esplodere dentro tutta la potenza del mondo.


Nei duri mesi che seguirono la scomparsa di Colossus, sua madre e il grande Leone Dorato discussero molto della fuga del figlio. Entrambi non riuscirono mai a comprendere le motivazioni di tale dipartita e attribuirono ai capricci di una mente instabile e irriconoscente una tale deviazione di percorso. Ma lo stupore e la rabbia iniziali, con il tempo, lasciarono spazio a un grande avvilimento.

Tuttavia, malgrado la grande fatica per allevare un figlio ingrato, restavano altri figli da poter generare ai quali trasferire il grande sapere dell’esistenza e delle cose del mondo.

Durante una notte, preso dai consueti incubi, il grande Leone Dorato si svegliò d’assalto e uscì dal suo rifugio per contemplare le stelle.

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La luce straordinaria che pervase la vallata di vecchie sterpaglie ed erba ingiallita spaventò il grande predatore, che restò a lungo incantato dall’inconsueta arroganza degli astri.

Fu così che, consideratosi l’unico detentore di tale privilegio, chiese alle stelle il perché di tanta luce. E quelle risposero:

<<È per ammirazione e riverenza, nostro signore.>>

Ma il grande Leone Dorato, spazientito, chiese ancora:

<<Ammirazione e riverenza nei confronti di chi?>>

E quelle risposero:

<<Colossus, nostro signore. È vostro figlio che noi ammiriamo.>>

Il grande Leone Dorato, incredulo, chiese allora:

<<È dunque diventato un grande predatore, più grande del padre?>>

Ma le stelle risposero:

<<No, oh nostro signore. È diventato un umile pesce, un pesce volante! E con le sue planate e i suoi salti sulla superficie del mare ha portato grande allegria e gioia tra i popoli dell’acqua salata.>>

E il grande Leone Dorato, deluso e amareggiato, chiese infine dove si trovasse il figlio per poterlo riportare a casa.

<<Oh nostro signore, ci piacerebbe poterla aiutare. Ma suo figlio non si trova in alcun dove. Viaggia in continuazione, plana tutto il giorno e salta nel cielo salutandoci con grandi sorrisi. Non fa parte di un posto, fa parte del mondo.>>


Fu così che il grande Leone Dorato partì alla ricerca del figlio, profondamente contrariato dal suo vagabondare tipico degli esseri spregevoli di alcun rango. In cuor suo, tuttavia, iniziò a insinuarsi il dubbio che l’esistenza, così come lui l’aveva creduta, quel ciclo di grezza fattezza di regole prestabilite e di leggi inviolabili, non fosse più tanto perfetto ed esatto.

Viaggiò a lungo, instancabilmente, sospinto dalla rabbia e da una punta di smarrimento.

Arrivò fino all’oceano indiano, attraversò le fredde terre desolate del nord, si piegò a colloquiare con gli esseri spregevoli che popolavano gli abissi.

Ma quelli gli ridevano in faccia, sbeffeggiandolo.

<<Non lo troverete mai, grande Leone Dorato. Vostro figlio è il pesce più felice di tutti i sette mari. Non si fermerà fino a quando morrà.>>

E a ogni colloquio con quei lombrichi d’acqua, il grande Leone Dorato apprendeva racconti sul figlio che non avevano nulla di eccezionale se non uno straordinario attaccamento alla vita e alla gioia, così distante dal carattere ombroso e disperato del giovane Colossus.

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Apprese, dunque, che tra i vari pesci ne esistevano alcuni più spaventosi di altri, più potenti di altri e molto più forti anche di lui. Ed ebbe paura, per il figlio, così minuto e così ingenuo, che potesse incontrare i grandi squali bianchi del sud o le orche del nord. E si raccomandava, quindi, con tutti i pesci che incontrava, che se qualcuno avesse fatto del male a Colossus avrebbe dovuto subire la vendetta del Re della savana.

Ma quelli, a ogni minaccia, lo sbeffeggiavano ancora, scomparendo tra i misteriosi abissi salati.

Dopo lunghi mesi di ricerche, dopo aver percorso tutto il continente fino alla punta estrema dell’oceano atlantico, nel tragitto verso casa approdò, infine, sulle coste del Mediterraneo.

Lassù, sulla costa est, di fronte al Mare nero e sotto il potente soffio del Meltemi, il grande Leone Dorato scorse infine una minuscola ombra che piroettava nel cielo. Aveva il colore del piumaggio dei merli indiani e due ali da libellula che doppiavano la lunghezza del suo corpo. Planava velocissimo sulla superficie del mare e saltava fino a toccare le nuvole, urlando esausto di gioia. Il sole illuminava il suo cammino e i pesci restavano abbagliati da tanta energia.


pesce volante<<Colossus!>>

Urlò incredulo il grande Leone Dorato.

<<Colossus, ti ho trovato infine!>>

Urlò piangente il grande Leone Dorato.

E Colossus, alla vista del padre, non riuscì a trattenere un enorme sorriso. Planò veloce, come una scheggia, sulla superficie marina e rimase a pochi centimetri dalla battigia.

<<Colossus! Figlio mio! Ma cosa hai fatto?>>

E Colossus rispose:

<<Sono un pesce volante, padre! Solo un umile pesce volante! Ma sono il pesce volante più felice di tutti i sette mari!>>

Ma il grande Leone Dorato, malgrado felice di rivedere il figlio, scosse la testa.

<<Saresti potuto essere il re della savana! Avresti potuto scegliere, poi, di trasferire il tuo branco vicino al mare! Non avresti dovuto combattere contro le onde o contro il vento, o scappare dai grandi predatori dei sette mari!>>

Ma Colossus, sorridendo, rispose:

<<Non ho scelto io questa natura, padre. Ma non volevo essere il re della savana e vivere vicino al mare. Volevo vivere nel mare ed essere felice. E contro le onde io mi diverto a giocare e grazie al vento riesco a volare sempre più in alto. Ed è vero, dovrò scappare dai grandi predatori del mare ma nella savana avrei dovuto combattere per respirare.>>

<<E non sei preoccupato del tuo futuro? Cosa farai ora?>>

E Colossus rispose:

<<L’unico mia preoccupazione rimanevate voi, in realtà. Ma avevo capito che non mi avreste mai lasciato andare. Ora che sono libero non mi preoccupo di ciò che arriverà, penso solo a vivere. E nuoto, e plano, e salto e sorrido alle stelle e al sole. E ci sono pesci che volano più in alto, che planano più veloce e che nuotano con più grazia. Ma nessuno, ancora, ho conosciuto che sorride più di me.>>

Il grande Leone Dorato, allora, constatata la smisurata felicità del figlio, capì e lo salutò con grande affetto, augurandogli tutta la fortuna del mondo.

E mentre la scia bianca delle lunghe planate si dissolveva nell’acqua salata, il grande Leone Dorato esclamò di fronte a tutti i pesci presenti vicino alla battigia:

<<Guardate come plana veloce! Guardate quanto salta in alto! Quello è proprio mio figlio!>>


Le notti nella savana risplendono, a volte, di una luce abbagliante. In quelle notti il grande Leone Dorato e sua moglie interrogano le stelle e rimangono ad ascoltare le nuove avventure del piccolo pesce volante Colossus.

E quelle rispondono, ai loro richiami, e narrano di regni sconosciuti negli abissi sconfinati, di superfici d’acqua che luccicano come diamanti liquidi, di raffiche violente che spazzano via la schiuma delle onde e di tanti amici che accompagnano il viaggio del figlio. E non c’è pesce, in tutto l’oceano, che riesca a resistere alla contagiosa energia di Colossus.


sole mare orizzontePerché il senso ultimo di questi esigui e precari stracci d’esistenza non può esser che quello di scoprire la propria natura, seguirla fino allo stremo delle proprie forze e risplendere, esausti di felicità.

Aurora G.

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